Ancora una prigione degli orrori a Kufra. In un assordante silenzio sull’inferno della Libia
di Emilio Drudi
Il 2025 si è aperto con le immagini terribili di una ragazza etiope torturata in Libia da una banda di trafficanti per indurre la famiglia a pagare quanto prima un riscatto di 6 mila dollari per lasciarla andare. Prima una foto in cui la giovane appare inginocchiata, legata e imbavagliata, con alle spalle decine di altri prigionieri costretti a tenere la testa china e nascosta tra le braccia, e poi le sequenze di alcune fasi della tortura, con lei appesa al soffitto per le braccia e qualcuno che la colpisce ripetutamente a frustate mentre qualcun altro le getta periodicamente dell’acqua sul viso e in testa per impedirle di perdere conoscenza.
La ragazza – come ha scoperto la Ong Refugees in Libya – si chiama N. J. ed ha appena 20 anni. E’ fuggita meno di un anno fa dall’Oromia, la regione dove sono in corso da sempre feroci scontri etnico-politici tra oromo e amhara e devastata da una lunga siccità che distrugge ormai quasi sistematicamente i raccolti e falcidia il bestiame, provocando fame, miseria, carestia. In Libia è arrivata nel maggio del 2024, passando dal Sudan. Puntava verso la costa del Mediterraneo, insieme ad altri profughi come lei, per tentare di imbarcarsi e chiedere asilo ed aiuto in Europa. Ma il suo viaggio che sognava di libertà si è interrotto a Kufra, il principale terminale delle piste che salgono verso nord dal confine sudanese, dove è stata sequestrata e rinchiusa in una delle prigioni dei trafficanti di donne e uomini. Pochi giorni dopo sono cominciate ad arrivare alla sua famiglia, in Oromia, le prime richieste di riscatto: telefonate sempre più minacciose ed esose, fino a raggiungere la cifra di 6 mila dollari, enorme per un paese dove il reddito medio pro capite non arriva a 5 dollari al giorno e per di più impoverito dalle guerre interne che, aperte con il conflitto in Tigrai nel novembre 2020, si sono susseguite in quasi tutto il paese, spesso con massacri etnici indiscriminati: in particolare ancora nello stesso Tigrai, nell’Ogaden, nell’Amhara e, appunto, nell’Oromia.
L’ultimo atto di questo stillicidio disumano si è avuto la mattina del 6 gennaio, quando i trafficanti hanno fatto pervenire ai genitori di N. J. la foto e poi il video della tortura. L’orrore estremo aggiunto a quasi un anno di brutalità continue. Il padre, la madre, tutta la famiglia allargata si stanno dando da fare da mesi per mettere insieme la somma. I trafficanti lo sanno bene, ma non vogliono aspettare ancora: pretendono i soldi subito e le immagini inviate dicono chiaramente che non si fanno scrupoli. Che per loro la vita di N. J. conta solo come merce da vendere. Per “fare soldi”.
Non è una tragedia nuova. Né isolata. Storie di questo genere ne sono emerse a decine nel tempo. Talvolta con immagini altrettanto crude. Ma anche questa volta, come ogni volta, questa foto e questo filmato scuotono come se fossero “inediti”. Forse, anzi, scuotono ancora di più proprio perché non sono “inediti”: perché le tantissime torture documentate finora, per anni, non sembrano aver turbato più di tanto le coscienze. Sicuramente non le coscienze e la sensibilità di chi, in Italia come in Europa, continua a lodare la Libia per il “lavoro svolto” per contrastare l’emigrazione. Per i raid della polizia nelle periferie e lungo le vie di terra ma soprattutto per le catture in mare e i respingimenti che consegnano i profughi/migranti a inferni come la prigione dei trafficanti di Kufra. Trafficanti che agiscono pressoché indisturbati, senza che le autorità libiche si preoccupino davvero di individuarli, mandarli in galera, mettere fine a questo enorme mercato di morte, di cui sono vittime centinaia, migliaia di disperati, a cominciare da N. J. e dalla cinquantina di giovani che si vedono nella foto alle sue spalle. Perché non è sicuramente un caso che i trafficanti abbiano voluto mostrare anche quest’altra cinquantina di prigionieri: la loro presenza è un chiaro messaggio che la stessa sorte di N. J. toccherà a tutti loro se le loro famiglie non troveranno al più presto il modo di pagare il riscatto. E infatti già nella serata del 6 gennaio sono state inviate a una famiglia somala le foto del loro ragazzo con il corpo martoriato da ferite e lividi spaventosi, dovuti a torture e percosse con fruste e bastoni.
Ma quello di Kufra – come si è accennato – non è che un caso tra tantissimi. Coglie bene la situazione David Yambio, portavoce di Refugees in Libya: “Questa – scrive – è la realtà della Libia oggi. Non basta definire la Libia caotica e senza legge: sarebbe troppo poco. Troppo diminutivo. La Libia è una macchina costruita per ridurre in polvere i corpi dei neri. Le aste di oggi (per i riscatti dei migranti prigionieri: ndr) riportano agli stessi freddi calcoli di quelle di secoli fa: un uomo ridotto alla forza delle sue braccia, una donna alla curva della sua schiena, un bambino al potenziale dei suoi anni. Perché la vicenda di N. J. è solo una delle tante. La Libia è diventata un cimitero per i migranti: un luogo dove la disumanizzazione del nero non è né nascosta né condannata. I trafficanti operano apertamente, favoriti dall’impunità o addirittura dalla complicità di sistemi che chiudono gli occhi su questo orrore. E il mondo guarda dall’altra parte. La Libia è l’ombra dell’Europa, la verità non detta della sua politica migratoria: un inferno costruito sul razzismo arabo e alimentato dall’indifferenza europea. La chiamano controllo delle frontiere, ma è crudeltà vestita di burocrazia”. E ancora: “I 6 mila dollari di riscatto richiesti per N. J. non sono solo il prezzo della sua vita: sono anche il prezzo del silenzio di una comunità globale che permette che questo orrore accada. Una sofferenza senza fine. Il destino di N. J. e delle altre 50 vittime di Kufra rimane incerto. Le loro grida sono accolte con indifferenza da chi potrebbe intervenire ma sceglie di non farlo”.
E questo “scegliere di non farlo” rende inesorabilmente complici. Colpevoli. Tanto più se, come fa in particolare l’Italia, non solo si “chiudono gli occhi” di fronte all’orrore ma si arriva a negarlo questo orrore. Come accade quando si perseguono le Ong “responsabili” di rifiutarsi di seguire le disposizioni delle autorità di Tripoli, impartite in aperto contrasto con il diritto internazionale e volte a riportare i naufraghi/migranti nell’inferno della Libia. Oppure quando si maschera la sempre più dura politica di chiusura e respingimento contro i migranti con il pretesto di voler “fare la guerra ai trafficanti”. Una ben strana “guerra”, che ignora l’indifferenza e le complicità di importanti esponenti anche istituzionali del “sistema Libia” in questo traffico di morte, più volte denunciate e documentate dai rapporti dell’Onu e di numerose Ong, ma regolarmente “silenziate”. O, ancora, quando si cerca di affermare che, in fondo, la Libia è un “paese sicuro”.
Ritorna, allora, il tema di sempre. Alla politica sull’emigrazione adottata da Roma e da Bruxelles non importa nulla di tragedie come quella di N. J. e dei suoi 50 compagni. Nulla delle migliaia che vivono la stessa “sofferenza infinita”. Conta solo che i profughi/migranti non arrivino neanche a bussare alle porte della Fortezza Europa. A qualsiasi costo e qualunque sia il destino che li aspetta.
Nella foto: Un gruppo di donne catturate dalla polizia libica.
Nota: il Comitato Nuovi Desaparecidos è in possesso delle immagini delle torture inflitte a N. J. e ai suoi compagni ma preferisce non pubblicarle per rispetto delle vittime