Per i migranti ancora muri, barriere, deportazioni: così si suicida l’Europa
di Emilio Drudi
Sembrava che ce l’avesse fatta. Quando quella bambina, strappata al mare, è stata portata sulla nave Ong Ocean Viking, non respirava più ma i medici di bordo sono riusciti a rianimarla, facendola poi trasferire in elicottero in un ospedale di Malta. Poche ore dopo, invece, è arrivata la notizia che la sua vita si era fermata. Ad appena 7 anni. Gli altri 90 migranti che erano con lei sul barcone affondato a sud di Lampedusa sono stati fatti sbarcare ad Ancona. Pochi giorni prima erano morti così altri tre bambini, tre fratellini: uno disperso in mare, uno recuperato ormai privo di vita dalla Sea Punks, un’altra nave Ong, e il terzo spirato tra le braccia dei medici che cercavano di salvarlo. Gli altri naufraghi, una ventina, li hanno portati a Lampedusa.
La fine atroce di questi quattro bambini non ha destato troppa emozione. Morti “normali”. Con in più, anzi, da più parti, l’idea sottintesa che ne sarebbero responsabili in primo luogo i genitori per averli portati in mare su un barcone precario: senza porsi la domanda sul perché una madre possa decidersi a tanto. L’attenzione si è concentrata, piuttosto, sul numero degli sbarchi in aumento: quasi 3.500 tra il primo e il 31 gennaio, il 33 per cento in più rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. Ed è così ogni anno: quello che “conta” di più è sempre il numero dei migranti arrivati. Lo scorso anno era la premier Giorgia Meloni a vantare il “crollo” degli sbarchi: 66.317 in dodici mesi contro i 157.651 del 2023. Ora sono le opposizioni a dire che anche il “piano Meloni” sta naufragando, vista la consistente ripresa della curva ascendente degli arrivi.
C’è da pensare che le vite spezzate lungo le rotte verso l’Europa siano considerate una routine. “Normali” effetti collaterali. Il “successo” della politica migratoria, infatti, viene generalmente stabilito in base al numero degli sbarchi: meno migranti arrivano (e, dunque, più ne vengono respinti) più è considerata valida ed efficace. A prescindere dalla sorte dei disperati che bussano alle porte dell’Europa. E’ così, sulla base di questa idea di chiusura, che sono nati e continuano ad essere innalzati i muri contro cui si infrangono vite come quelle dei quattro bambini morti sul finire di gennaio. Così da oltre vent’anni: dalle prime barriere di acciaio e filo spinato costruite sui confini delle enclave spagnole di Ceuta e Melilla in Marocco all’inizio del secolo e dai primi accordi generali per esternalizzare le frontiere europee (il Processo di Rabat nel 2006) fino agli accordi successivi, con una accelerazione segnata, negli ultimi anni, dal memorandum Italia-Libia voluto dal ministro Marco Minniti, governo Gentiloni, nel 2017 e costantemente rinnovato da tutti i governi successivi, fino all’intesa con la Tunisia nel 2023 e al Cpr inventato dall’Italia in Albania. Un’operazione, quest’ultima, che secondo il governo Meloni dovrebbe servire da “deterrente” ma che in realtà, oltre ad essere estremamente costosa e fallimentare (come dimostrano i tre tentativi di deportazione finora effettuati, tutti bocciati dalla magistratura perché violano diritti fondamentali), diventerebbe, se attuata, una riproposizione della tortura dei Centri per il rimpatrio attivi in Italia, i famigerati Cpr, più volte finiti sotto inchiesta.
Rientra in questo contesto anche lo scandalo degli ultimi giorni: la liberazione di un criminale come il generale Al Almasri, colpito da un mandato di cattura della Corte Penale Internazionale per crimini di guerra e crimini contro l’umanità commessi nella rete di lager che gestisce come capo della polizia giudiziaria libica: il carcere di Mitiga, soprattutto, ma anche di Ain Zara, Tarik al Sika e Tarik al Matar. Un personaggio inquietante ma essenziale per il sistema di potere e per il governo di Tripoli. Essenziale – c’è da pensare – anche per garantire gli accordi con Roma e, dunque, nella posizione di condizionare o addirittura di ricattare l’Italia non solo con la minaccia di moltiplicare le partenze dei barconi dalle coste libiche (soprattutto da Zawiya, Sabratha e Zuwara) ma di svelare la sostanza “taciuta”, le complicità e il prezzo, di quegli accordi sottoscritti dal 2017 in poi, inclusa l’istituzione e l’operatività della zona Sar libica per la ricerca e il soccorso in mare, una finzione totalmente inventata da Roma e sostanzialmente gestita di fatto dall’Italia e dall’agenzia europea Frontex. Per non dire di “avvertimenti”, più o meno espliciti o velati, sui grossi “interessi petroliferi” italiani in Libia. E’ una questione, questa del petrolio, di cui si è parlato poco, quasi niente, tra le radici del “caso Almasri”, ma forse è proprio qui il punto fondamentale. Molto più delle “ragioni di sicurezza” invocate da tutti i membri del Governo per giustificare la liberazione e il volo di Stato messo a disposizione per ricondurre in Libia il torturatore ricercato dalla Corte Penale Internazionale con l’accusa non solo di essere il “gestore” dei lager del circondario di Tripoli ma anche il responsabile diretto, negli anni, di decine di omicidi e stupri, incluso quello di un bambino di 5 anni.
In definitiva, un altro capitolo di una “ragion di Stato” costruita sul sangue, la morte, le sofferenze indicibili di migliaia di persone. Un orrore da passare sotto silenzio. E, in ogni caso, l’ennesima, strenua difesa della politica dei muri e dei respingimenti per tenere lontani migliaia di disperati dalle mura e dagli egoismi della Fortezza Europa. Solo che i muri non fermano i flussi. Al massimo li deviano e ne creano altri. Proprio in queste settimane, ad esempio, sta venendo alla luce un nuovo canale dal Pakistan e dall’Asia meridionale: una via di fuga che dai paesi d’origine arriva in aereo in Arabia o in altri Stati del Golfo e poi in Sud Africa, per proseguire in qualche modo, attraverso il continente africano, fino al Senegal o alla Mauritania, dove si cerca un imbarco per le isole Canarie. Un giro enorme, in alternativa alla rotta balcanica via terra o a quella del Mediterraneo dalla Turchia verso la Grecia o l’Italia, molto più brevi ma ormai più difficili e più sorvegliate. Enorme, eppure sempre più battuto: i pakistani risultano nell’ultimo anno tra i 10 gruppi di profughi più numerosi sbarcati nell’arcipelago spagnolo nell’Atlantico. Perché la lunghezza del percorso non conta: quello che conta è la speranza di poter arrivare.
Ma soprattutto, oltre che deviare i flussi e renderli più lunghi e rischiosi, i “muri” innalzati dalla Fortezza Europa uccidono. Non a caso, via via che barrire e ostacoli di ogni tipo si sono moltiplicati, è cresciuto in maniera esponenziale il numero delle vittime: oltre 38 mila dal 2015, l’anno della cosiddetta invasione, quando l’arrivo in Europa di oltre un milione di disperati ha alimentato il pretesto per gridare all’invasione o addirittura alla “sostituzione etnica”, inducendo ad adottare misure di contenimento sempre più drastiche e mortali anziché una politica tesa a cercare di gestire un problema planetario che ha radici profonde e che i muri, lungi dal risolverlo, contribuiscono ad aggravare. Lo dimostra il tasso di mortalità che in dieci anni è diventato 6 volte più alto: da un migrante morto ogni 256 arrivati nel 2015 si è attestato negli ultimi tempi su uno ogni 40/50 arrivi. Nei primi 31 giorni di quest’anno le vittime sulle rotte verso l’Europa, tra morti e dispersi, risultano 267: una ogni 44,5 arrivi, con un incremento di 113 vite spezzate rispetto alle 154 del gennaio 2024. E i dodici mesi del 2024 sono stati un anno terribile, con 5.268 vite spezzate, a un tasso di una ogni 39,9 arrivi, il più alto di sempre: 12,8 punti in più del 2023, quando si sono registrati 5.271 tra morti e dispersi ma a fronte di un numero molto più elevato di arrivi: 278.232 rispetto ai 210.486 dello scorso anno.
Se resta un briciolo di umanità, queste cifre non sono, non possono e non devono essere, una semplice, fredda statistica. Se appena ci si ferma a pensare che a ciascuna, singola unità delle migliaia messe in fila anno per anno, corrisponde un uomo, una donna o un bambino, con la sua storia e i suoi sogni, allora questi dati dovrebbero far quanto meno riflettere. E guidare le politiche sull’immigrazione, rimettendo al centro le persone e i loro diritti: politiche che si pongano il problema di gestire i flussi e di capire come mai in così tanti sono costretti a lasciare la propria terra. Di capire che chi sale su un barcone o affronta le piste del deserto in realtà sfida la morte per poter vivere. Ma l’Italia e l’Unione Europea preferiscono la “politica delle cannoniere”: quella politica di chiusura e respingimento a tutti i costi alla quale si devono le stragi degli ultimi anni e che sta smantellando i principi della Carta Universale dei Diritti, l’idea stessa d’Europa, i valori della nostra Costituzione, i principi cardine del diritto internazionale. A cominciare dal diritto di asilo.
E’ eloquente, da parte dell’Italia, il frettoloso ritorno, dopo le prime due bocciature, alla deportazione in Albania, sulla base di una selezione fatta in mare, a sud di Lampedusa, su una nave militare, tenendo conto solo del paese di provenienza (ritenuto a priori “sicuro”) e senza nemmeno la presenza di funzionari dell’Oim, l’Organizzazione Mondiale per le Migrazioni, a garanzia di un minimo di equanimità di giudizio e di rispetto dei diritti e della dignità delle persone: non a caso già poco dopo lo sbarco si è stati costretti a portare in Italia 6 dei 49 “catturati” perché minorenni o persone “vulnerabili”, mentre per gli altri 43 il provvedimento è stato annullato dalla Corte d’Appello di Roma. Eppure, anche dopo questo smacco, il Governo italiano continua a giurare sulla validità e la correttezza di questo genere di deportazioni. Quasi a scimmiottare le file di giovani sudamericani in catene mostrati dal presidente Trump mentre vengono costretti a salire su un aereo per l’espatrio forzato dagli Stati Uniti o l’annuncio, sempre di Trump, che la prigione americana di Guantanamo a Cuba potrà diventare un centro di detenzione per migliaia di migranti. O, ancora, quasi a dare man forte alla pesante stretta sull’immigrazione che si respira in tutta Europa e che ha trovato uno dei vertici nella mozione per rafforzare i controlli e i poteri della polizia proposta da Friedrich Merz, il leader cristiano-democratico candidato cancelliere per i conservatori in Germania, e approvata con il sostegno determinante di Alternative fur Deutschland (Afd), il partito di estrema destra di ispirazione neonazista. Certo, poi la proposta è stata bocciata dal Parlamento tedesco, ma è inquietante di per sé che colui che tutti indicano come il futuro cancelliere della Germania sia arrivato a formularla e a giovarsi anche di voti neonazisti.
E’ un quadro che dice quanto sia vitale impostare una politica migratoria che metta al centro le persone e non, invece, come impedire, ad ogni costo, che i migranti arrivino in Europa e più in generale nel Nord del mondo. Ne va non solo della vita di migliaia di persone ma dei principi e dei valori fondamentali su cui si basa la nostra democrazia. Il nostro “stare insieme”. E’ significativo quanto ha detto il cancelliere austriaco Alexander Schallenberg a proposito delle proposte di Friedrich Merz: “Se ognuno tira su il suo ponte levatoio, ci ritroveremo tutti più poveri e nessuno sarà più al sicuro”.
Nella foto: un centro di detenzione in Libia
(Servizio da Tempi Moderni)