Storie

Migranti: 10 morti al giorno ma l’Italia blocca le navi di soccorso Ong

di Emilio Drudi

Sono morti più di 10 profughi/migranti al giorno, tentando di raggiungere la Fortezza Europa, nei dodici mesi del 2022. In tutto, 3.724, quasi il tre per cento in più delle 3.619 vittime del 2021, considerato un anno record. In particolare, 3.403 inghiottiti dal mare e 321 sulle vie di terra africane, del Medio Oriente o della rotta balcanica. Con un tasso di mortalità di uno ogni 46,5 migranti arrivati, leggermente inferiore a quello del 2021 (uno ogni 41,7) ma – come dimostra la più alta media vittime giornaliera di sempre – solo perché sono aumentati gli sbarchi (in totale 173.206 rispetto a 150.950).

La rotta via mare più pericolosa si è confermata quella spagnola (l’Atlantico verso le Canarie e il Mediterraneo occidentale), con 1.607 vittime, una ogni 17,9 migranti arrivati, in aumento rispetto a 1 ogni 27 nel 2021. In forte crescita anche il tasso registrato nel Mediterraneo orientale: 1 ogni 23,4 arrivi per un totale di 391 morti o dispersi rispetto a quello di  1 ogni 72,3 precedente, con un totale di 104 vittime. Quanto al Mediterraneo centrale, il maggior numero di sbarchi in Italia (104.061 pari a 37.027 in più dei 67.034 registrati nel 2021) ha ridotto a 1 su 74,1 arrivi l’indice di mortalità 2022 rispetto a 1 ogni 44,5 dei dodici mesi antecedenti, ma il dato assoluto delle vittime (1.404, pari al 37,7 per cento delle 3.723 sulle tre rotte) è tra i più alti mai registrati.

Cifre da “bollettino di guerra”. La guerra condotta con i muri eretti dalla politica Ue e in particolare italiana per tenere fuori dalla Fortezza Europa i profughi/migranti a qualsiasi costo e a prescindere dalla sorte che li attende. Ne sono vittime, oltre ai 3.719 morti o dispersi, i circa 200 mila (194.550) bloccati e respinti dalle polizie degli Stati che si sono accordati con la Ue per svolgere il lavoro sporco di sorvegliare e rendere inaccessibili i confini dell’Unione Europea, esternalizzati sempre più verso sud, fino alla sponda meridionale del Mediterraneo o addirittura fino al Sahara:  Turchia, Egitto, Sudan, Libia, Niger, Tunisia, Algeria, Marocco… E’, tutto questo, la conseguenza diretta della “politica dei muri” che, inaugurata ormai vent’anni fa, si è fatta sempre più aspra. Un ulteriore giro di vite si è avuto proprio sul finire del 2022. Ad esempio, con il prolungamento dei valli fortificati eretti a difesa delle frontiere europee, arrivati a 1.500 chilometri: una nuova cortina di ferro. O con i nuovi decreti contro le Ong, le cui navi umanitarie sembrano diventate un’autentica ossessione per il governo italiano e non solo: probabilmente perché sono le ultime testimoni di quanto accade ogni giorno nel Mediterraneo.

Ecco, le Ong. La premier Giorgia Meloni le ha accusate, in sostanza, di non svolgere operazioni di salvataggio ma di “fare da traghetto” attraverso il Mediterraneo centrale per i migranti imbarcati dai trafficanti a caro prezzo. Una insinuazione assurda, ma tutt’altro che nuova. Al contrario: è l’ultimo capitolo della guerra contro le navi umanitarie iniziata nel 2017 con il ministro Marco Minniti al Viminale, governo Gentiloni, e via via proseguita con i governi Conte 1 (al Viminale Salvini e alla Farnesina Di Maio, che parlò di “taxi del mare”), Conte 2 e Draghi, in entrambi con agli interni la ministra Luciana Lamorgese la quale, attraverso tutta una serie di sanzioni e provvedimenti amministrativi, riuscì a bloccare le unità delle Ong più dei famigerati “decreti sicurezza” precedenti. Sempre con l’accusa più o meno velata o esplicita (però mai provata ed anzi smentita dalle inchieste della magistratura) di una sostanziale “complicità” con le organizzazioni criminali dei trafficanti.

Il nuovo decreto Meloni-Piantedosi è la chiusura del cerchio. A parte alcune disposizioni di assoluta ovvietà, da sempre ampiamente rispettate dalle Ong (come l’idoneità tecnico-nautica per navigare e svolgere interventi di soccorso o l’obbligo di fornire informazioni dettagliate delle fasi dei salvataggi effettuati), sono due i punti essenziali:

1 – l’imposizione alle navi di portare immediatamente a terra i naufraghi e dunque, di fatto, il divieto o comunque l’impossibilità di fare ulteriori salvataggi dopo il primo o di intervenire tempestivamente in caso di altre segnalazioni di pericolo, tanto più che, come dimostrano gli ultimi casi, per lo sbarco non si sceglie “il posto sicuro più vicino” e raggiungibile nel minor tempo possibile, ma una località che richiede giorni di navigazione: La Geo Barents di Medici Senza Frontiere a Taranto o in precedenza, il 31 dicembre, addirittura Ravenna per la Ocean Viking di Sos Mediterranee e Livorno nove giorni prima per la Life Support di Emergency.

2 – L’obbligo, per il comandante della nave, di verificare chi tra i naufraghi tratti in salvo abbia intenzione di chiedere la protezione internazionale. Questo compito in genere viene già svolto ma nelle intenzioni del governo italiano dovrebbe comportare la presentazione della domanda in mare, sulla nave stessa, in modo che l’incombenza di esaminarla sia dello “stato di bandiera” dell’unità di soccorso. Ignorando che questa procedura, già prospettata da governi precedenti, è stata più volte rigettata perché l’accesso alla protezione internazionale nell’Unione Europea ha una sua disciplina specifica la quale – come ha fatto rilevare Gianfranco Schiavone, dell’Asgi (giuristi immigrazione) – afferma con precisione che “quando la nave si trova in acque internazionali non si possono presentare richieste di asilo perché esse vanno formalizzate dalle autorità nazionali preposte, alla frontiera e nel territorio dello Stato inteso in senso stretto comprese le acque territoriali”. Identico il parere di Armando Spataro, già procuratore capo a Torino: “Prevedere una procedura d’asilo sulle navi, dando per scontato che ad occuparsene debba essere lo Stato di bandiera, è un fatto privo di qualsiasi base giuridica ed è stato già bocciato dalle corti internazionali. E il ragionamento di fondo è falso: si vuol far credere che le navi Ong siano un fattore di attrazione”.

Sono proprio questi due punti a mettere in contrasto la linea Meloni-Piantedosi, più ancora dei provvedimenti dei governi precedenti, con il diritto internazionale, la cosiddetta “legge del mare” e le Convenzioni a cui l’Italia ha aderito, a cominciare da quella di Ginevra del 1951 sui diritti dei rifugiati e da quella europea sui diritti umani. Per non dire della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, fatta propria come principio fondante dalla Costituzione Repubblicana.

Il focus della questione lo ha colto perfettamente l’ammiraglio Sandro Gallinelli, 40 anni nella Guardia Costiera, il quale, sottolineando come il decreto sia in contrasto con il diritto internazionale, specifica in una intervista al Manifesto: “Il decreto si intitola gestione dei flussi migratori ma guarda a un aspetto marginale del fenomeno. L’unico obiettivo evidente è contenere i soccorsi operati dalle navi delle Ong. Questo non fermerà le partenze, continuate anche  in questi giorni con le Ong in porto o lungo rotte in cui queste non sono presenti (come da Algeria, Cirenaica e Turchia). Non colpirà neanche gli affari dei trafficanti che, nonostante i miliardi investiti da Italia e Ue, continuano a prosperare… Purtroppo, invece, sicuramente non limiterà morti e dispersi”. Ovvero, si pensa solo a fare la guerra alle Ong, a cui è riconducibile appena il 10/12 per cento degli sbarchi in Italia ma che salvano migliaia di vite in mare.

E il giudizio dell’ammiraglio Gallinelli non è isolato. “Spero solo – ha dichiarato don Marco Pagniello, direttore della Caritas italiana – che non ci siano conseguenze sulle vite dei migranti. Le vite umane vanno salvate, nessuno può dire: lasciamoli in mare…”. E’ emblematico, in proposito, anche il pensiero del giurista Giovanni Maria Flick, già presidente della Consulta, il quale, intervistato da Avvenire, insiste in particolare proprio sulla sorte dei naufraghi-migranti: “Si pongono limitazioni incomprensibili, come quella di impedire salvataggi plurimi. Se una nave soccorre un gruppo di naufraghi e lungo la rotta verso il porto di sbarco avesse la possibilità di salvare altre vite, dovrebbe voltarsi dall’altra parte? Stiamo parlando dell’assurdo… L’osservazione più precisa è venuta dalla Conferenza episcopale, che ha ricordato come queste regole non proteggano il valore supremo della vita umana” ma addirittura rischiano di trattare i naufraghi-migranti “come ‘merce deperibile’ o peggio ‘rifiuti pericolosi’, adempiendo formalità burocratiche che servono solo a mettersi la coscienza a posto”.

Sulla stessa linea sindaci da sempre in prima linea nell’accoglienza dei migranti, come Roberto Ammatuna, di Pozzallo, dove da anni sbarcano migliaia di persone tratte in salvo nel Mediterraneo, con tutti i problemi che questo comporta per il Comune, ma tutt’altro che favorevole a bloccare le navi Ong o a dirottarle verso approdi lontani migliaia di chilometri: “Siamo di fronte a una delle pagine più nere della Repubblica. Questo decreto è incivile e disumano. La vita è dono grande e prezioso: viene prima di ogni altra cosa”.

E a questi aspetti si aggiungono profili di incostituzionalità o di gravi, palesi contrasti con norme di legge e il diritto internazionale. Ne parla il dottor Spataro in una intervista pubblicata da Avvenire: “Non c’è dubbio. Penso ad esempio al divieto di salvataggi plurimi. Proviamo ad immaginare una nave che abbia salvato dei naufraghi, riceva l’assegnazione del porto sicuro e mentre si dirige verso lo scalo indicato apprenda di un altro naufragio. Secondo il decreto non potrebbe intervenire, abbandonando i naufraghi al loro destino, ma incorrendo in una clamorosa violazione del nostro codice penale, che impone il dovere di intervenire e semmai punisce chi vi si sottrae. Un’altra anomalia è quella dell’indicazione del porto di sbarco. Le norme internazionali sono chiare: il salvataggio si conclude quando i naufraghi sbarcano nel luogo sicuro più vicino, ma qui lo scopo è tenere le Ong il più lontano possibile dall’area di soccorso”.

Sono argomenti analoghi a quelli sollevati da oltre venti Ong in una protesta congiunta: “Dal 2014 – si legge nel documento pubblicato – le navi del soccorso civile stanno colmando il vuoto che gli Stati europei hanno deliberatamente lasciato, interrompendo le loro operazioni Sar. Adesso il governo italiano ha introdotto un insieme di regole che ostacolano gli interventi di soccorso, esponendo le persone in difficoltà in mare a rischi ulteriori gravissimi. Tra le nuove regole il governo Meloni richiede, ad esempio, che le navi di soccorso civile si dirigano immediatamente verso un porto italiano magari lontano, come è già accaduto, giorni e giorni di navigazione. Appare evidente che si vogliono tenere le navi Sar fuori dall’area di soccorso per periodi prolungati e ridurre le loro capacità di assistere le persone in pericolo”. E un primo risultato le Ong lo hanno ottenuto. La Commissione Europea ha ammonito che tutti i i Paesi membri “devono rispettare la legge internazionale e la legge del mare”. “Salvare vite in mare – ha sottolineato Anita Hipper, portavoce della Commissione – è un obbligo morale e legale”. Che si tratti di un “messaggio” indirizzato all’Italia appare più che esplicito. Perché, come hanno denunciato le Ong, il prezzo prevedibile da pagare con l’imposizione di questo nuovo “codice” saranno molti più morti in mare. Un incremento di quella strage che si protrae da anni e che può forse configurare un crimine di lesa umanità.

Nella foto: cadaveri trascinati dal mare su una spiaggia di Garabulli in Libia