Storie

Cpr, carcerazioni di sapore fascista: violano i diritti, non risolvono nulla

di Emilio Drudi

Il governo Meloni ha deciso di raddoppiare il numero dei centri per il rimpatrio (Cpr) per i migranti (diventeranno 20, uno per regione) e di prolungare il tempo di detenzione fino a 18 mesi.

La premier ha giustificato questo provvedimento asserendo che in tal modo aumenteranno i rimpatri obbligatori di coloro che “non hanno diritto” di restare in Italia. In realtà è una misura crudele, anticostituzionale e, nondimeno, totalmente priva di senso, perché destinata a non funzionare. Crudele e incostituzionale in quanto si tratta, in concreto, di una lunga carcerazione amministrativa in contrasto con il nostro ordinamento giuridico e con i principi di tutela dei diritti sancito dalla Costituzione: i cosiddetti “irregolari” che finiscono nei Cpr, infatti, subiscono una privazione della libertà che può arrivare a un anno e mezzo senza aver commesso alcun delitto e senza, anzi, che gli venga neanche contestato alcun reato. Di più: senza nemmeno le tutele dei “normali” detenuti delle carceri o degli istituti di pena, perché formalmente, pur dovendo trascorrere fino a 540 giorni in una cella, non sono considerati detenuti ma persone colpite da un provvedimento amministrativo.

Sembra quasi una riedizione del confino fascista: non a caso il giornalista Sergio Scandura, di Radio Radicale, sempre attentissimo a questi temi, ha fatto notare che “ogni carcerazione amministrativa – quindi non penale, sottratta alla naturale giurisdizione della magistratura – è intimamente fascista: perché oggi possono trattenerti ritenendoti un corpo umano illegale, domani potrebbero trattenerti perché ritengono il tuo pensiero non conforme al regime”.

Per di più, si diceva, si tratta di un nonsenso che non aumenterà minimamente il numero dei rimpatri. Perché? Perché per attuare i rimpatri occorrono accordi specifici con i paesi di provenienza dei migranti ma attualmente intese di questo genere non ce ne sono. Anzi la stragrande maggioranza di quei paesi, per varie ragioni, non ha mai avuto e non ha tuttora alcuna intenzione di firmarne. Senza contare i costi: la cifra media per ogni persona da espellere e rimpatriare è di 2.365 euro. Per fare un esempio, se è vero come dicono al Governo, che più della metà delle oltre 130 mila persone finora arrivate quest’anno in Italia non hanno diritto di restare, per rimpatriarle occorreranno 153,7 milioni (pari a 2.365 euro per 65 mila).

Ma, costi e accordi a parte, non è affatto vero che prolungare la detenzione facilita e dunque fa aumentare i rimpatri. Lo dimostra un report della Coalizione Italiana Libertà e Diritti Civili (Cild) dal quale emerge che la percentuale di rimpatri tra i detenuti nei Cpr si mantiene costante, intorno al 50 per cento, a prescindere dalla durata della carcerazione. Anzi, il picco più alto, tra il 2013 e il 2020, si è avuto nel 2017, quando la detenzione massima prevista era di 90 giorni, infinitamente inferiore a quella di 18 mesi decisa ora dal governo Meloni e già sperimentata nel 2013-2014. E’ eloquente che, proprio tenendo conto anche delle grosse difficoltà di rimpatrio, Germania e Francia si stiano orientando su tutt’altra strada: anziché espellerli si valuta la possibilità di regolarizzare i cosiddetti “migranti clandestini”, prevedendo di avviarli a corsi di formazione per i lavori e le professioni dove c’è scarsa disponibilità di addetti. In Francia, in particolare, è stato proposto di censire regione per regione quali sono i settori di produzione e lavoro dove c’è più necessità di personale, in modo da avere una mappa precisa dei bisogni in tutto il paese. Bisogni che potrebbero essere almeno in parte esauditi dai migranti “regolarizzati” e “formati” con una sanatoria specifica. E’ una strada sicuramente meno roboante e propagandistica di quella scelta dall’Italia, ma che appare molto più concreta ed efficace.

Nella foto: migranti dietro le sbarre di in un centro per il rimpatrio