Storie

Cpr in Albania: primo passo per delocalizzare l’accoglienza?

di Emilio Drudi

Lo hanno trovato impiccato nella sua cella del Centro per il rimpatrio (Cpr) di Ponte Galeria, a Roma, la mattina del 4 febbraio scorso. In una scritta sul muro, il suo estremo, drammatico messaggio: “Riportate il mio corpo in Africa perché possa riposare in pace”. Si chiamava Ousmane Sylla. Aveva solo 22 anni. Veniva dalla Guinea, sconvolta da decenni di dittatura, regimi militari, colpi di stato: l’ultimo nel 2021. Voleva raggiungere il fratello maggiore, esule in Francia, a Tolosa, ma è rimasto incastrato nel “sistema Italia” sui migranti. Sbarcato il 29 luglio 2023 a Lampedusa e fermato poi a Ventimiglia, è finito in un centro accoglienza del Cassinate (dove ha denunciato violenze e maltrattamenti), poi nel Cpr di Trapani e infine in quello di Roma. Un esame psichiatrico fatto a Trapani ne aveva sconsigliato la detenzione in una struttura come i Cpr. Non ne è stato tenuto conto. Ousmane ha retto ancora per qualche mese, finché ha deciso di farla finita: per protesta e disperazione.

Ousmane è l’ultima vittima dei 9 Cpr attivi in Italia: prigioni di fatto dove la stragrande maggioranza degli “ospiti” finisce in esecuzione di un provvedimento di polizia, senza aver commesso alcun reato e meno che mai in base a una sentenza di condanna emessa da una corte di giustizia, con la prospettiva di restarci fino a 180 giorni e senza nemmeno i diritti dei detenuti nei normali istituti di pena. In sostanza, una “morte civile” che si consuma giorno per giorno, nel chiuso di un campo di concentramento, un lager con condizioni di vita inumane. Le proteste o addirittura le rivolte contro questo sistema sono fin troppo note, anche se inascoltate. Basti ricordare le disperate richieste di aiuto lanciate nelle rarissime occasioni in cui i prigionieri riescono ad avere un contatto con l’esterno, le bocche cucite con sottile fil di ferro per denunciare il “silenziamento” a cui sono condannati, i tanti suicidi di chi, come Ousmane, non ce l’ha fatta a sopportare.

L’ultima sommossa è proprio di questi giorni: è esplosa nel Cpr di Macomer, in Sardegna, dove la notte tra il 24 e il 25 marzo numerosi detenuti hanno appiccato il fuoco ai materassi. “Una rivolta – ha scritto l’Unione Sarda – scoppiata a causa di una situazione che in tanti considerano insostenibile, minando le condizioni umane all’interno della struttura”. Ancora più esplicita l’assemblea sarda No Cpr: “La situazione che c’è a Macomer deriva dalle finalità stesse di una struttura concepita per negare la dignità umana dei migranti”.

La Procura ha aperto un’inchiesta. E’ la terza, negli ultimi mesi, sui Cpr italiani. Sul finire dello scorso anno, in dicembre, la magistratura milanese, partendo da una indagine per frode condotta dalla Guardia di Finanza, ha acceso un faro sul Cpr di via Corelli. Ne sono emerse condizioni allucinanti. Al momento dell’ispezione delle Fiamme Gialle, hanno scritto i pm Giovanna Cavalleri e Paolo Storari, “il presidio sanitario con medici e infermieri era assolutamente inadeguato”. Mancavano, tra l’altro, medicinali e visite di idoneità alla vita nel centro per chi “aveva epilessia, tumore al cervello” ed altre gravi patologie. Il supporto psicologico “largamente insufficiente e fornito di personale che non conosceva la lingua degli immigrati trattenuti”. Le camere “sporche”, i bagni “in condizioni vergognose”, il cibo “maleodorante, avariato e scaduto”.

Ancora più grave, se possibile, quello che, nel dicembre scorso, hanno trovato i magistrati di Potenza nel Cpr di Palazzo San Gervasio. Qui, oltre a condizioni di detenzione simili a quelle di Milano, si è scoperto che i reclusi – come scrive la Procura – venivano imbottiti di sedativi e ansiolitici “per neutralizzare ogni possibile lamentela per le condizioni disumane in cui spesso si trovavano a vivere…”. “Quelli che creavano problemi venivano trattati come scimmie”, ha specificato in particolare, in una conferenza stampa, il procuratore Francesco Curcio (che ha firmato quattro misure cautelari su una trentina di indagati), aggiungendo senza mezzi termini che questo abuso di psicofarmaci “su soggetti che si ritiene ipoteticamente possano dare fastidio perché un po’ agitati, è un modo di calpestare la dignità umana”.

Questa serie di inchieste, tutte con le stesse radici, dimostra come non si tratti di casi isolati. Si tratta, piuttosto, di un intero sistema “malato” e disumanizzante, che dovrebbe essere smantellato perché viola palesemente i diritti umani e, appunto, la dignità di ogni singolo detenuto. Ma il Governo non intende in alcun modo mettere in discussione i Cpr. Al contrario: punta ad ampliarne la rete, esportando un lager di questo genere anche oltreconfine. E’ questa, infatti, la sostanza dell’accordo con l’Albania, della durata di 5 anni, firmato il 6 novembre 2023 e ratificato in via definitiva dal Senato il 15 febbraio. Di cosa si tratta lo ha specificato più volte la stessa premier Giorgia Meloni. In una piccola porzione di territorio albanese che passerà di fatto sotto la sua giurisdizione, l’Italia costruirà due strutture: una nel porto di Shengjin per le procedure di sbarco e identificazione, e l’altra, un Cpr, a Gjaader, su un’area di quasi otto ettari, dove i migranti verranno trattenuti in attesa dell’esame della domanda di asilo. Poi, se la richiesta verrà accolta, saranno trasferiti in Italia mentre, in caso di “bocciatura”, scatterà un provvedimento di espulsione. Agli “ospiti” sarà proibito uscire sia durante le procedure amministrative che alla loro conclusione. Prigionieri, totalmente tagliati fuori dal mondo esterno, come accade, appunto, nei nove Cpr in funzione nella penisola.

A Shengjin come a Gjaader dovrebbero finire i migranti maschi adulti, provenienti da paesi cosiddetti “sicuri”, soccorsi in acque internazionali da navi militari italiane. Lo smistamento, per separare i bambini, i minorenni e le donne dai naufraghi destinati all’Albania, dovrebbe avvenire direttamente in mare. Secondo i piani di Roma, dovrebbero essere ospitati e “gestiti” in questo modo 36 mila migranti l’anno: 3 mila in entrata e 3 mila in uscita al mese. A parte il concetto di “paese sicuro” manifestato dal Govero italiano, a dir poco “elastico” visto che si sta cercando di far passare per “sicura” persino la Libia, e sorvolando sulle evidenti difficoltà dello “smistamento” da effettuare in mezzo al Mediterraneo, il calcolo dei “36 mila migranti l’anno” che non graverebbero più sui flussi diretti in Italia, appare quanto meno aleatorio. Indagini più approfondite, che tengono conto delle lungaggini e della conseguente impossibilità pratica di un ricambio completo di 3 mila persone al mese nel Cpr di Gjaader, affermano che la più ottimistica delle previsioni si ferma, si e no, ad un migliaio ogni 30 giorni. Ovvero, poco più di 10 mila l’anno. Basti ricordare come si siano rivelati pressoché impossibili finora i rimpatri forzati a causa della mancanza di accordi bilaterali con gli stati di provenienza. Nel 2022 – secondo i dati Eurostat del 2022, gli ultimi disponibili – nell’intera Unione Europea sono stati adottati 431.195 provvedimenti di rimpatrio ma ne sono stati eseguiti effettivamente solo il 17 per cento. E l’Italia è largamente in coda, al di sotto della media tra i 27 paesi Ue: a fronte di 28.185 rimpatri ordinati, ne sono stati portati a termine solo 2.790, meno del 10 per cento. Di contro, a parte la Francia che si è fermata al 6 per cento, la Germania è arrivata al 18, la Spagna al 42, la Polonia al 60. Quanto ai dati assoluti, il primato va alla Francia, con 8.640 rimpatri (ma a fronte di 135.654 ordini) seguita da Svezia (8.615), Germania (7.730), Grecia (6.985). E poi, a seguire, Austria, Polonia, Spagna, Cipro e Croazia. L’Italia è al decimo posto. E non è da credere che nel nuovo Cpr “esterno” di Gjaader il tasso si alzi all’improvviso. Con il risultato che i migranti portati in Albania prima o poi arriveranno comunque in Italia: o perché la loro richiesta di asilo è stata accolta oppure perché, alla scadenza dei termini, non potranno essere “liberati” nella stessa Albania: il governo di Tirana è stato chiaro e irremovibile su questo punto, sicché l’unica alternativa al trasferimento nella penisola, peraltro a piede libero, alla scadenza dei 180 giorni di detenzione previsti, è quella di farli restare a tempo indeterminato proprio a Gjaader, rallentando ancora di più il fantomatico meccanismo di ricambio di 3 mila unità al mese ma soprattutto violando i termini di legge, con tutto quello che ne consegue, incluse eventuali azioni della Corte Europea di Giustizia e della stessa magistratura italiana.

Il meno che si possa pensare, allora, è che – come hanno denunciato in molti – tutta l’operazione sia in realtà un grosso bluff dettato da motivi elettorali. Peccato che sia un bluff costosissimo per le casse dello Stato italiano. In tutto, 653 milioni di euro. Ovvero: 69 milioni tra costruzione, gestione e apparati telematici delle due strutture; 25 per la struttura penitenziaria; 94 come rimborso all’Albania per la sorveglianza esterna; 260,2 milioni per il personale di sorveglianza (viaggi, diaria, vitto, alloggi, ecc.); 5 per le nuove commissioni territoriali incaricate di esaminare le richieste di asilo; 42,5 per l’assunzione di personale e funzionari, magistrati, ecc.; quasi 3 milioni per reperire e far funzionare a Roma le aule per le video udienza; 8,73 per allestire aule per udienze in Albania e i collegamenti telematici dall’Italia; 29,16 per spese di viaggio di avvocati e interpreti; 104 per riportare in Italia i migranti da Gjaader al termine delle procedure, qualunque ne sia l’esito.

E’ difficile credere però che le macroscopiche incongruenze emerse fin dall’inizio siano sfuggite al governo italiano. Allora, forse, questa operazione è qualcosa di più di un gigantesco, costosissimo bluff elettorale. C’è da sospettare, cioè, che l’accordo con l’Albania (subito benedetto dall’Unione Europea) sia solo il primo passo per varare un grande progetto di delocalizzazione dell’accoglienza dei richiedenti asilo sul modello del sistema offshore adottato dall’Australia, confinando i migranti in campi lager, organizzati, d’intesa con i governi locali, nella nazione insulare di Nauru e nell’isola di Manus, Nuova Guinea, nel Pacifico meridionale. In sostanza, una esternalizzazione simile a quella attuata ormai da anni per le frontiere della Fortezza Europa, spostate sempre più a sud, sulla base di protocolli con vari stati africani che si sono assunti il compito di “gendarmi” anti immigrazione. Hanno tutta l’aria di andare in questa direzione gli accordi stipulati da Roma con la Tunisia e l’Egitto, ad esempio, o la “comunità di intenti” proclamata più volte con la Libia (sia con il governo di Tripoli sia con quello di Bengasi guidato dal generale Haftar). Non solo: il Regno Unito, di cui la premier Meloni non nasconde di voler seguire l’esempio, si è messo da tempo su questa strada, stipulando un’intesa con il Ruanda, bocciata però, almeno per ora, dalla Corte Suprema britannica. E c’è anche il precedente di Israele, che negli anni ha trasferito migliaia di profughi eritrei e sudanesi del Darfur in Ruanda o in Uganda.

Solo che, se questa è l’intenzione, il progetto di delocalizzazione attuato dall’Australia si è rivelato un inferno, come hanno documentato accurate inchieste di varie Ong e delle Nazioni Unite. Varata più di 20 anni fa, la “soluzione del Pacifico”, come l’ha chiamata il governo di Canberra, allora guidato dai conservatori, è stata abbandonata nel 2007 dall’esecutivo laburista per essere reintrodotta nel 2013 da un altro governo laburista ed è poi andata avanti fino al 2022, quando, sulla scia delle reazioni e delle proteste scaturite dalle notizie di quanto accadeva a Nauru e Manus, si è deciso di chiudere questa politica. “La storia della detenzione offshore e delle violazioni dei diritti umani a Nauru macchierà per sempre la storia di entrambi gli schieramenti politici australiani”, ha dichiarato Ian Rintoul, della Refugee Action Coalition, specificando come i rifugiati inviati in quei lager non avessero commesso alcun crimine. Così come non hanno commesso alcun crimine i richiedenti asilo rinchiusi nei Cpr.

Ecco, proprio mentre l’Australia è tornata sui propri passi in nome del rispetto dei diritti umani, c’è da temere che ora siano l’Italia e l’Europa a voler percorrere quella strada. Macchiandosi delle stesse violazioni dei diritti umani.

Nella foto: una protesta per la chiusura dei Cpr