Storie

Profughi: alza muri anche la Finlandia e l’Europa applaude. Ma che Europa è?

di Emilio Drudi

Prima la decisione di costruire una barriera di filo spinato su 250 dei 1.340 chilometri della linea di frontiera con la Russia. Ora, a un anno di distanza, la Finlandia ha anche chiuso, almeno fino al 18 febbraio del prossimo anno, quattro dei nove valichi, quelli di Vaalimaa, Nuijmaa, Imatra e Niirala, i più frequentati, tutti nel sud est. “Abbiamo agito con decisione e rapidità per garantire che la situazione al confine orientale non peggiori”, ha dichiarato il primo ministro Petteri Orpo, a capo di un governo di destra, specificando che si è ritenuto necessario il provvedimento “per combattere una grave minaccia per l’ordine pubblico e la sicurezza nazionale”.

Ma qual è questa minaccia, tanto grave da chiudere la frontiera? E’ il sospetto, o magari la convinzione, che la Russia voglia far “pagare” alla Finlandia il suo ingresso nella Nato, ufficializzato il 4 aprile 2023, scatenando una invasione nel paese di profughi e migranti provenienti dal Medio Oriente o dall’Africa, che farebbe arrivare facilmente a Mosca e poi passare attraverso il territorio russo. Profughi e migranti, insomma, come “arma” di pressione e vendetta. La stessa contestazione mossa ormai da oltre due anni al presidente bielorusso Alexander Lukashenko, accusato di usare questa strategia contro Polonia, Lituania e Lettonia per colpire l’Europa e l’Occidente. In sostanza, il primo atto delle “ritorsioni” annunciate da Putin quando Helsinki ha deciso di uscire dalla sua tradizionale neutralità.

Ma se è dal 4 aprile che la Finlandia fa parte della Nato, c’è da chiedersi come mai l’ordine di chiudere i quattro valichi arrivi solo adesso, quasi otto mesi dopo. La risposta di Petteri Orpo è che si è deciso di agire quando si è constatato che gli arrivi dei profughi/migranti stavano raddoppiando. Che, in sostanza, ne sono arrivati più nelle ultime settimane che nei primi 9 mesi di quest’anno. Può essere il segnale – si è detto – che comincia a concretizzarsi la minaccia di Putin.

Solo che se si vanno a controllare i numeri, la minaccia appare decisamente poca cosa. Da gennaio fino a ottobre risultano entrati in Finlandia dalla Russia 117 “irregolari”. Nelle ultime settimane 174. Da una media di una dozzina al mese ad oltre 150. Perché – si afferma – le guardie di frontiera russe non li fermano più come facevano prima. Può essere. Ma se si guarda alle cifre in assoluto, si arriva in tutto a meno di 300 in quasi undici mesi. Una media che fa sorridere i paesi dell’Europa mediterranea o della rotta balcanica. Ma il punto è un altro. Il punto è che si continua a parlare di “numeri” e non di persone: non ci si pone il problema di chi siano quegli “irregolari”, perché e da dove vengano, che cosa chiedono, qual è la loro storia. E invece è proprio da qui che occorre partire: come è nello spirito e nei valori dell’idea stessa di Europa. Esattamente come è stato fatto per i profughi costretti a fuggire dall’Ucraina attaccata dalla Russia, che l’Europa ha giustamente accolto a milioni, assicurando loro una ospitalità dignitosa, senza alcun particolare contraccolpo per la sua economia, il suo assetto sociale, la sua stessa vita quotidiana. Senza, in particolare, alcun problema “per l’ordine pubblico e la sicurezza”.

Forse si tratta, allora, di guardare alla complessità della questione e non di limitarsi a freddi calcoli aritmetici. Bene, se si adotta questa visione, è facile scoprire che la grande maggioranza di quelle poche centinaia di “irregolari” fugge dalla Siria, dal Kurdistan turco, dall’Afghanistan, dallo Yemen. In una parola, da crisi terribili.

La Siria è devastata da una guerra che si trascina da dodici anni, con almeno 500 mila morti e dieci milioni di profughi o sfollati. La stasi apparente è saltata negli ultimi mesi, sia per una recrudescenza della presenza dell’Isis, sia, soprattutto, per gli attacchi condotti dal regime di Assad nel nord ovest, nella regione di Idlib, al confine con la Turchia, e nelle zone curde semi-autonome, come nell’area di Afrin, con effetti devastanti per la popolazione civile.

Nel Kurdistan Ankara conduce da anni una lotta senza quartiere contro i movimenti autonomisti o indipendentisti, che considera terroristi. Si tratta di una vera e propria guerra, ma in Occidente è pressoché ignorata, tanto da suscitare il sospetto che, in concomitanza con il ruolo di mediatore che si è ritagliato nel conflitto tra Russia e Ucraina, Erdogan abbia ricevuto o in qualche modo si sia preso (senza però alcuna reazione) una sorta di “tacito disco verde”, a prescindere dalle vittime che la dura repressione contro i “ribelli” sta provocando. Le azioni militari e i raid si spingono spesso fino in Siria e in Iraq, per acquisire una lunga fascia di confine e crearvi una “zona cuscinetto” da tenere sotto stretto controllo, ponendo fine all’esperimento del confederalismo democratico della Rojava, l’amministrazione autonoma costituita nel 2012, e togliendo così ai curdi la possibilità di avere un proprio territorio nel Kurdistan siriano.

Quanto all’Afghanistan, ai milioni di profughi costretti a fuggire da oltre vent’anni di guerra, se ne sono aggiunti a centinaia di migliaia, a partire dall’agosto 2021, dopo il ritorno dei talebani a Kabul e l’incredibile, vergognosa ritirata di tutte le nazioni occidentali presenti nel paese, che avevano alimentato in molti, in particolare tra le donne, la speranza di poter costruire un Afghanistan diverso. Il caos di quei giorni è ancora vivo nella memoria. Come risuonano ancora nell’aria gli impegni degli Stati Uniti e dell’Europa di prendersi cura di tutti coloro che avevano collaborato con il progetto di riforma del paese e, più in generale, di tutti gli sfollati scappati oltreconfine. Solo che quegli impegni sono stati in gran parte disattesi. E i profughi afghani sono costretti a bussare da “irregolari” alle porte dell’Europa. Incluse le donne. Nonostante l’Agenzia per l’asilo dell’Unione Europea abbia ammonito che le donne e le ragazze afghane, proprio a causa della palese condizione di oppressione da cui sono costrette a fuggire, devono essere accolte e ottenere automaticamente lo status di rifugiate in Europa.

Poi lo Yemen, distrutto da un conflitto che va avanti dal 2015, da carestie, epidemie, fame. Dove milioni di persone riescono a sopravvivere soltanto grazie agli aiuti internazionali. Dove sono anni che i bambini non possono più andare a scuola. Dove, nell’indifferenza generale, sono stati bombardati persino ospedali e moschee. Dove l’unica speranza di futuro è la fuga oltreconfine. Dove, secondo i rapporti dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, si sta registrando la più grave emergenza umanitaria degli ultimi anni.

Non mancano profughi africani. Ma anche questi fuggono da paesi massacrati da crisi estreme. Come l’Eritrea, da trent’anni prigioniera del regime militare di Isaias Afewerki, una delle più feroci dittature al mondo. O la Somalia, implosa nel 1990 e poi travolta da una guerra permanente tra il governo di Mogadiscio e le milizie fondamentaliste di Al Shabaab, oltre che da sciagure come tre successive e lunghe carestie, due terribili invasioni di locuste, siccità e sconvolgimenti ambientali legati al cambiamento climatico. Oppure il Sudan, dove la guerra in corso sta provocando migliaia di morti, mentre si calcola che almeno quattro milioni di persone siano state costrette ad abbandonare le proprie città e i propri villaggi.

Ecco, sono disperati come questi che cercano di passare i confini europei. Incluso quello finlandese. E può essere anche vero che Mosca abbia “allentato i controlli” per lanciare un segnale ad Helsinki. Non sarebbe la prima volta che qualche governo gioca sulla pelle dei profughi. La Libia, prima con Gheddafi e poi con i governi che si sono via via succeduti a Tripoli o a Bengasi, ne è un esempio eloquente. Ma lo ha fatto anche la Turchia di Erdogan nel 2020. Così come, negli ultimi mesi, lo sta facendo la Tunisia di Kais Saied il quale, dopo la campagna razzista lanciata nel febbraio scorso contro i migranti subsahariani, gioca continuamente su due tavoli, ora dicendosi pronto a frenare i flussi, ora ammonendo che non intende fare del suo paese né un hub per profughi né un gendarme al soldo dell’Europa. Senza escludere dunque l’ipotesi della ritorsione di Putin, è anche vero, però, che l’aumento degli arrivi in Finlandia nell’ultimo mese può avere altre cause. I flussi dei migranti, infatti, non sono mai costanti. Al contrario: possono crescere come diminuire quasi di colpo. Proprio in Russia, ad esempio, nel 2018, in occasione dei campionati mondiali di calcio, si è registrato un picco di arrivi di giovani africani che poi hanno cercato di proseguire verso l’Unione Europea. C’era in Sudan tutta una organizzazione che se ne occupava fornendo, al costo di migliaia di euro, un passaporto falso, i biglietti per l’aereo di andata e ritorno per non destare sospetti alla frontiera e perfino i biglietti per alcune partite, da esibire eventualmente come giustificazione del viaggio. Si partiva in genere da Khartoum e si atterrava a Mosca, dove emissari dei trafficanti aspettavano i migranti all’arrivo, ritiravano il passaporto falso e poi organizzavano il transito via terra fino alla frontiera con un paese Ue, in genere la Polonia o la Lituania, che doveva essere superata di nascosto, eludendo la vigilanza. E’ ovvio che poi, terminati i campionati, questo genere di arrivi si è interrotto.

Ora, senza pensare a situazioni particolari come quella del giugno 2018 per la Coppa del Mondo a Mosca, non è da escludere, ad esempio, che l’incremento di arrivi in Finlandia nell’ultimo mese sia dovuto all’acuirsi delle crisi nei paesi di provenienza dei profughi. O magari, più banalmente, al tentativo di anticipare le misure restrittive che da tempo si percepivano come imminenti in Finlandia ad opera del premier Petteri Orpo, promotore già nel 2015, quando era ministro dell’interno, di una rigida politica anti immigrazione.

Forse anzi la spiegazione di questa chiusura dei valichi, come prima della decisione di costruire 250 chilometri di barriere di filo spinato lungo il confine, è proprio qui: nella politica anti immigrazione, fatta di muri e respingimenti, che negli ultimi vent’anni si è fatta strada in maniera sempre più evidente in tutta Europa, tradendone i valori fondamentali di solidarietà e di difesa dei diritti umani. E’ dai primi anni Duemila, infatti, che si costruiscono muri alle frontiere. Si è cominciato nelle enclave spagnole in Marocco di Ceuta e Melilla. Si è proseguito con la frontiera dell’Evros tra Grecia e Turchia. E poi, in un crescendo impressionante, tra Bulgaria e Turchia, tra Serbia e Macedonia, in Ungheria, in Lituania, in Lettonia, in Polonia, in Slovenia, ecc. Perfino intorno al porto di Calais, in Francia. Per un totale di circa duemila chilometri: una muraglia più lunga della cortina di ferro. Senza contare le norme e gli accordi che hanno esternalizzato i confini della Fortezza Europa, spostandoli sempre più a sud e affidandone la vigilanza alle polizie degli Stati partner, in Africa o nel Medio Oriente.

Ecco, le decisioni prese da Helsinki appaiono l’ultimo capitolo di questa lunga deriva, peraltro tutt’altro che conclusa, come dimostra la volontà espressa da più Stati Ue di rafforzare, alzare, allungare, rendere ancora più invalicabili le barriere esistenti munendole dei più sofisticati strumenti tecnologici: è quanto, ad esempio, ha già fatto la Spagna, alzando il vallo di Ceuta e Melilla da 7 a 10 metri, il livello di un palazzo di tre piani e mezzo. Quanto sta facendo la Polonia. O quanto ha più volte annunciato la Grecia.

Non c’è da stupirsi, allora, che Helsinki abbia incontrato il consenso di quasi tutti i paesi Ue. In particolare della presidente della Commissine Europea Ursula von der Layen la quale, stando a quanto hanno riportato i media, ha detto in un colloquio telefonico con Orpo: “La strumentalizzazione dei migranti da parte della Russia è vergognosa, sostengo pienamente le misure adottate dalla Finlandia. Ringrazio le guardie di frontiera finlandesi per aver protetto i nostri confini europei”.

Lo stesso ringraziamento Ursula von der Layen lo ha rivolto alla Grecia nel marzo 2020, quando uomini in divisa hanno sparato alla frontiera dell’Evros, dalla riva greca, contro centinaia di profughi che, “liberati” da Erdogan, cercavano di passare, uccidendone almeno due. Sempre in nome della “difesa dei confini”. Ma, tornando alla Russia, ammesso che ci sia davvero una strumentalizzazione da parte di Putin, che Europa è quella che scarica sulla pelle dei profughi – dei più deboli e fragili in tutta questa vicenda – il peso di un braccio di ferro assurdo e crudele? Quella che tradisce la sua stessa anima, ignorando il grido d’aiuto lanciato da disperati in fuga da guerre, dittature, terrorismo, carestie, fame e miserie endemiche. Quella che nella politica migratoria ha al centro non i profughi/migranti, le persone e le loro storie, i loro diritti ma come non farli arrivare, questi profughi, a qualsiasi costo. Già, che Europa è?

Nella foto: muri e guardie di frontiera al confine della Finlandia

Servizio tratto da Tempi Moderni