Storie

Quei profughi intrappolati nella terra di nessuno tra Polonia e Bielorussia

Dall’inizio della “crisi dei migranti” lungo il confine tra la Polonia e la Bielorussia ci sono stati quasi 60 morti. Quelli che sono stati scoperti, perché ci sono numerose segnalazioni che non è stato possibile verificare. Disperati morti di sfinimento o di freddo nelle foreste e nelle paludi che coprono tutta la zona, oppure annegati nei fiumi che corrono in prossimità della frontiera. E anche chi ce l’ha fatta a passare, entrando in Polonia e, dunque, nell’Unione Europea, nonostante la vigilanza e spesso le violenze della polizia di Minsk e di Varsavia, quasi sempre era allo stremo: per le ferite, la fatica, le percosse subite dall’una e dall’altra parte del confine, i giorni passati nella terra di nessuno in attesa di trovare il modo di superare le barriere di acciaio e filo spinato costruite dalla Polonia. Il periodo più micidiale, quello in cui si registrano più vite spezzate, è l’inverno. Freddissimo a queste latitudini- E il nuovo inverno è ormai cominciato: già in queste settimane la temperatura scende di notte ampiamente sotto lo zero termico. Pochi possono resistere. Specialmente i bambini. Ma le barriere restano lì, sempre chiuse, sempre più alte, sempre più sorvegliate, sempre più munite di tecnologie che segnalano anche il minimo movimento, impedendo di entrare nella Fortezza Europa. Ecco, proprio partendo dalla constatazione che qui l’inverno diventa un’emergenza quotidiana per i profughi – migliaia di disperati in fuga da Afghanista, Siria, Iraq, Yemen ma anche da diversi paesi africani – Grupa Granica, l’associazione polacca di volontari più attiva nel prestare assistenza e soccorso ai profughi e nel monitorare la situazione lungo tutto il vallo fortificato, ha pubblicato un rapporto sulla situazione. Per chiedere che i prossimi mesi non diventino ancora “mesi di morte”. Vale la pena pubblicarne per intero il testo

Sistiema: così viene definita, dal lato bielorusso, la lunga fascia chiusa tra le due barriere e i posti di blocco al confine fra la Bielorussia e la Polonia. E’ l’area utilizzata dai servizi bielorussi per imprigionare e ricattare i migranti in questa tappa del loro lungo cammino.

Morsi di cane, pestaggi, maltrattamenti fisici e psicologici, separazione delle famiglie, stupri, minacce: le forme di violenza subite dalle persone che finiscono nel sistiema potrebbero riempire un elenco lunghissimo. Questo è un luogo dove non c’è speranza, dove non riescono ad arrivare neanche le organizzazioni umanitarie.

Le persone finite nel sistiema spesso, ad esempio, hanno bisogno di assistenza medica urgente, tuttavia i servizi di sicurezza non permettono loro di tornare a Minsk, in Bielorussia. E così il sistema di recinzioni e barriere diventa una trappola. Lo dimostrano le tante richieste di aiuto lanciate in autunno direttamente da persone rimaste prigioniere del sistiema oppure da loro familiari. Eccone alcune.

“Abbiamo bisogno di aiuto, siamo bloccati tra i confini della Bielorussia e della Polonia, ci sono bambini tra di noi, non abbiamo né cibo né acqua. Stiamo subendo violenza. Siamo vicino al fiume, qualcuno può aiutarci? “

“Mio fratello e suo cugino sono nella foresta tra Bielorussia e Polonia da lunedì scorso. Hanno bisogno di aiuto immediato: di un intervento medico. Hanno subito delle fratture e hanno bisogno di un ospedale. Non riescono a camminare. Sono stati picchiati a lungo”.

“Salve, ho bisogno di aiuto, puoi fare qualcosa per noi? Il fratello diciannovenne di mio marito, rifugiato siriano, si trova al confine tra la Bielorussia e la Polonia. È stato nel bosco per cinque giorni, senza cibo né telefono (si era scaricato). È stato picchiato sia dalle guardie polacche sia da quelle bielorusse. È di nuovo al confine. Cosa dovremmo fare se ora nostro fratello è nella foresta? È al confine, non in Bielorussia, non in Polonia, ma al confine. Niente cibo né telefono per comunicare”.

Purtroppo non abbiamo potuto aiutare queste persone e non sappiamo quale sia stato il loro destino. Noi possiamo prestare aiuto solo dal lato polacco, nella foresta. Quella foresta che la gente definisce la “giungla polacca”. E si capisce perché: chi riesce ad attraversare il muro lungo il confine o a superare gli alvei dei fiumi finisce in una foresta molto fitta e antica. Oltre agli alberi nella fascia di confine ci sono paludi, colline, zone molto franose, grandi tronchi di alberi caduti che bisogna scavalcare. E ora, nella giungla placca, ci sono anche neve e gelo. Le persone, lungo il cammino, rischiano il congelamento, l’ipotermia, lo sfinimento causati da sforzi fisici enormi e dalla mancanza di cibo e acqua potabile.

E quelli che sono rimasti nella parte bielorussa, troppo esausti per proseguire verso la Polonia? Non sappiamo nulla di quale destino sia toccato alla maggior parte di loro. Spesso perdiamo improvvisamente i contatti con chi è riuscito a chiamarci dall’interno del sistiema. Talvolta veniamo a sapere della sorte di alcuni dei dispersi dalle loro famiglie, che cercano disperatamente di localizzare i propri cari nella fascia tra le recinzioni, di sapere se sono feriti, se sono vivi ma non possono più comunicare a causa del telefono scarico. E sappiamo anche delle morti. Ne abbiamo già scritto in ottobre. Probabilmente, anzi, ci sono molte più vittime di quanto sappiamo, tuttavia, in mancanza di informazioni attendibili, non siamo in grado di confermare le informazioni che ci sono arrivate. In particolare, non c’è alcuna possibilità di verificare i dati provenienti dalla Bielorussia.

Sigillare le frontiere significa in realtà respingere le persone e intrappolarle in un vicolo cieco. Sappiamo che ci sono persone bloccate all’interno del sistiema e non dobbiamo chiudere gli occhi di fronte alla loro sofferenza. Chi sarà responsabile, chi risponderà di altre morti proprio al nostro confine?

Nella foto: La barriera di filo spinato nel cuore della foresta tra Polonia e Bielorussia