Migranti, quelle migliaia di morti rimossi dalla memoria
di Emilio Drudi
“E’ la peggiore tragedia dell’emigrazione di sempre nel Mediterraneo”: così molti hanno parlato del terribile naufragio al largo di Pylos, in Grecia, nel quale hanno perso la vita circa 650 persone. Lo ha detto, in una conferenza stampa, persino Ylva Johansson, la commissaria per gli affari interni dell’Unione Europea. In realtà non è così. Come ha fatto notare la Ong Aegean Boat Report, quella di Pylos è certamente una strage enorme, ma non la più grave. La più grave, finora, è quella registrata la notte tra il 18 e il 19 aprile del 2015 quando nel Canale di Sicilia – a 130 chilometri dalla Libia, 205 da Malta e 240 da Lampedusa – un peschereccio partito da Zawiya stipato di centinaia di disperati in fuga dall’inferno libico, si rovesciò e affondò di colpo, forse dopo aver urtato una portacontainer portoghese, la King Jacob, che stava accostando per i soccorsi. Ci furono oltre 800 morti. Appena 28 i superstiti.
C’è da chiedersi, allora, da cosa nasca questa sorta di “vuoto di memoria”. La risposta di Aegean Boat Report è che, purtroppo, “sembriamo dimenticare questi tragici casi più facilmente di quanto vorremmo ammettere”, tanto da dover temere che “presto anche questo caso di Pylos verrà dimenticato”. Ma forse la risposta è ancora più triste, perché la strage di otto anni fa nel Canale di Sicilia è, per molti, caduta nell’oblio nonostante ci sia chi ha cercato con forza di tenerne viva la memoria. All’indomani del naufragio si prese subito l’impegno di riportare a galla il relitto del peschereccio, se non altro per recuperare le salme di quanti più dispersi possibile. L’operazione fu portata a termine poco più di un anno dopo, tra i mesi di giugno e luglio del 2016, favorita dal fatto che lo scafo si era adagiato su una secca, a circa 200 metri dalla superficie anziché 400 e oltre come nel resto della zona. Non fu facile perché anche a 200 metri non possono operare i sommozzatori e si dovette ricorrere a mezzi e tecniche speciali, adatti alle grandi profondità. Se ne occupò la Marina italiana: agganciato e rimosso con grande cautela, il barcone fu trasportato nel porto di Augusta e sistemato in un contenitore di protezione. Nella stiva c’erano 458 corpi senza vita. Altri 169 cadaveri furono trovati sui fondali intorno al punto dell’affondamento, mentre 48 erano stati recuperati nei momenti successivi al naufragio. In tutto, 675 vittime, a cui vanno aggiunti almeno 100-150 dispersi, forse anche di più.
Quel relitto riportato a riva era di per sé un monito e uno stimolo a ricordare. Ma si andò molto oltre. L’artista svizzero Cristoph Buchel, famoso per le sue grandi, provocatorie installazioni, trasformò quel barcone in un “monumento della memoria”: un’opera d’arte da esporre alla Biennale di Venezia. Il progetto si realizzò nel maggio del 2019, quattro anni fa, quando il relitto fu prelevato dal pontile Nato di Augusta, portato su una nave a Venezia e poi trasbordato su una chiatta che, attraversando il canale della Giudecca, lo fece arrivare fino all’Arsenale, per collocarlo in una dei bacini degli ex cantieri navali della Serenissima: il “relitto dell’orrore” per riflettere sulla mattanza che ha trasformato il Mediterraneo in un enorme cimitero. E non dimenticare.
L’iniziativa – realizzata in collaborazione con l’assessorato regionale alla cultura della Sicilia, con il Comune di Augusta e il Comitato 18 Aprile – ebbe un’eco vastissima. Eppure, a quanto pare, molti hanno dimenticato. Allora, la risposta che si è data Aegean Boat Report forse non basta. Forse, cioè, non si tratta soltanto di un “vuoto di memoria”. Una “dimenticanza”. Forse si tratta, in realtà, di una rimozione. Più o meno consapevole, ma una rimozione. Quasi un rifiuto. Magari per non dover fare i conti con le barriere e i “muri” che, eretti dalle politiche di chiusura e respingimento adottate dall’Italia e dall’Europa per tenere lontani i migranti ad ogni costo, sono la causa diretta delle decine di migliaia di vite spezzate negli ultimi vent’anni sulle rotte dell’emigrazione.
In una parola, una rimozione per poter continuare più facilmente a voltarsi dall’altra parte. Nonostante appaia fin troppo chiaro come sia da questo “guardare altrove” che nascono non solo tragedie quali quella del Canale di Sicilia (avvenuta non a caso quasi all’indomani dell’abolizione della missione Mare Nostrum) o di Pylos, che almeno destano una sia pure fugace emozione, ma anche la lunghissima, quasi quotidiana catena di naufragi meno eclatanti, ignorati, che quasi “non fanno più notizia”, ma che continuano a provocare vittime. Dal primo gennaio a oggi si contano già oltre 2.350 morti o dispersi: dimenticarsene sarà come ucciderli un’altra volta.
Nella foto: il relitto del peschereccio affondato nel Canale di Sicilia durante l’esposizione a Venezia