Storie

Migranti. Vittime della finta zona Sar libica anche gli ultimi 30 morti

di Emilio Drudi

Li hanno lasciati alla deriva nel mare in burrasca per più di un giorno intero. Erano in 47. Se ne sono salvati appena 17. Gli altri 30, domenica 12 marzo, si sono persi nel Mediterraneo. Intorno c’erano quattro navi mercantili che, oltre 30 ore dopo il primo Sos, finalmente stavano cercando di recuperarli. Già, oltre 30 ore dopo, perché il primo allarme, seguito da numerosi altri, è stato lanciato da Alarm Phone alle 2,28 del mattino di sabato 11. Il cuore della tragedia, l’ennesima, è tutto nel lungo arco di tempo trascorso prima che si decidesse chi e come intervenire. Un tempo enorme, vista la drammaticità della situazione, innescato ancora una volta dalla finta zona Sar libica: “finta” perché esiste solo sulla carta. Quel gommone era 113 miglia a nord ovest di Bengasi, nella zona Sar libica appunto e alle soglie della zona Sar maltese. Prima Alarm Phone e poi anche Sea Bird (il piccolo aereo da ricognizione di Sea Watch) si sono messi in contatto ripetutamente con la centrale Mrcc di Roma e con Tripoli. Nessun mezzo di soccorso si è mosso per ore.

“Le autorità libiche – ha denunciato Alarm Phone – ci hanno informato inizialmente che avrebbero inviato una nave. In seguito hanno dichiarato di non poter intervenire per mancanza di mezzi e che l’Italia stava coordinando l’evento di ricerca e salvataggio”.

C’è da chiedersi quanto tempo sia trascorso tra il primo Sos e la decisione di Tripoli di delegare all’Italia il coordinamento della missione di soccorso, affidata poi da Mrcc Roma a quattro navi mercatili.  La prima, la Basilis L, è arrivata sul posto solo nella tarda mattinata di sabato 11. Le altre tre l’hanno seguita progressivamente, fino al mattino di domenica 12, quando il gommone si è rovesciato proprio mentre una delle quattro, la Froland, era riuscita ad accostare e stava cercando di recuperarlo. Ma a parte questo, ci sono altri aspetti che fanno riflettere nella risposta data da Tripoli ad Alarm Phone.

Il primo è la “mancanza di navi”. Non è la prima volta che la Guardia Costiera libica fornisce questa incomprensibile versione dei fatti. Lo ha fatto, ad esempio, anche in occasione della strage di Garabulli, nell’aprile 2021. Ma se Tripoli non dispone di navi per intervenire in emergenze come queste, come può gestire una zona Sar? Il secondo aspetto è la richiesta rivolta all’Italia di occuparsi del coordinamento del salvataggio. Che è ancora più grave dell’ammissione di non avere navi disponibili. Questa sorta di “delega” a Roma, infatti, conferma in sostanza che Tripoli non ha una centrale Mrcc per ricevere gli Sos, condurre, coordinare e organizzare i soccorsi. Altrimenti non si capisce come mai, invece di farlo fare a Roma, non abbia direttamente allertato e dirottato sul posto dell’emergenza le navi in transito, disponendo e guidando tutta l’operazione. E’ la conferma, insomma, che come è emerso fin dall’istituzione, nel giugno 2018 è stata messa in piedi non una zona Sar ma tutta una enorme finzione: una sorta di alibi dietro cui l’Italia e l’Europa si nascondono da anni per “giustificare” la propria inerzia anche di fronte a eventi drammatici. Non a caso Roma ha tenuto a sottolineare che quelle 30 giovani vite sono state spezzate in un’area di mare “fuori dalla sua competenza”.

Ma la finzione continua: sulla scia di questa ennesima tragedia, l’Unione Europea ha promesso di inviare altre motovedette alla Libia, dopo le decine già consegnate negli ultimi anni. All’indomani della tragedia di Lampedusa nel 2013, la risposta italiana è stata la missione Mare Nostrum, uno degli interventi più nobili della nostra Marina, con migliaia di vite salvate. Ora si danno altre navi alla Libia, fingendo di ignorare che servono solo a riportare nei lager i profughi/migranti catturati in mare durante la “fuga perla vita” verso l’Europa.

Nella foto: il barcone al largo di Bengasi ripreso da Sea Bird prima del naufragio